è una chiesa rupestre  sita sulle pendici del monte Gravio, comunemente noto come Laura. Ai piedi della collina affiorano le acque della sorgente Labso e poco distante sorge la Laura, un fiumicello che a qualche centinaia di metri si unisce al Labso dando origine al Viara, affluente del Rio Secco: poco distante, nei pressi della Laura, sono documentati la chiesa di Santa Maria della Laura (998), i cui ruderi erano ancora evidenti  agli inizi del 1900,  e alcuni resti pertinenti ad un mulino già esistente nel 1143.

Il nome Laura, toponimo di origine monastica, farebbe ipotizzare che la grotta inizialmente fosse abitata e amministrata da una comunità monastica greca, forse eremiti del Vicino Oriente che si sarebbero ritirati nella grotta in cerca di solitudine. La cripta è costituita da due anfratti naturali. Il primo, largo 12 m e profondo 10 m, è concepito come una chiesa senza facciata e tetto e presenta immagini sacre dipinte sulle pareti; gli affreschi più antichi (IX-X sec.), sulla parete a sinistra, sono rovinati e sbiaditi dall’umidità e dalle gocce che cadono dal soffitto: potrebbe trattarsi dell’originale luogo di riunione della piccola comunità eremitica. Salendo una decina di scalini, attraverso uno stretto cunicolo dal fondo scivoloso, o anche dall’esterno, si accede ad una seconda grotta profonda circa 21 metri che, per la presenza di giacigli e strutture scolpite nella roccia, farebbe pensare ad un dormitorio comune.

Foto 1: Cripta Sancti Michaelis

 Le notizie storiche relative alla Cripta Sancti Michaelis risalgono alla metà del sec. IX; la chiesa viene ricordata nell’anno 841 nel Chronicon cavense come pertinenza dell’episcopio di Montoro, poi incorporata con i suoi beni alla Mensa arcivescovile.

Al IX secolo vengono attribuite due lastre marmoree reimpiegate come scalino d’ingresso alla struttura in muratura di accesso alla grotta e gli affreschi più antichi presenti nella grotta, rovinati dall’umidità. Nella documentazione pergamenacea la chiesa compare per la prima volta nell’anno 995, tra i confini di un terreno. La chiesa in rupe dedicata a S. Michele, quindi, è documentata a partire dal IX secolo.

   Ben presto l’insediamento rupestre divenne centro di pellegrinaggio locale e nel contempo attrazione per i pellegrini diretti al santuario più famoso del monte Gargano e/o in Terra Santa, abituati a visitare grotte a scopo salvifico. L’acqua che cadeva dal soffitto veniva raccolta in una vasca sottostante e destinata ad usi devozionali. Il bosco, lo scenario selvaggio della montagna e l’aspro percorso che i pellegrini dovevano fare per raggiungere la cripta, insieme all’acqua della sorgente che sgorga ai piedi del monte, sono caratteristiche della cripta di Montoro ad imitazione della grotta più famosa del Gargano.

   Alle soglie dell’Età Moderna, in seguito a qualche episodio di peste, la chiesa subì una ristrutturazione, come dimostrano due pannelli: uno riproducente san Michele Arcangelo nell’atto di trafiggere il drago e ai suoi piedi un monaco orante con un libro aperto tra le mani, a conferma dell’origine eremitica dell’insediamento; l’altro che rappresenta una Vergine con Bambino tra i santi Rocco e Sebastiano, ambedue invocati contro la peste.

 Foto 2: Cripta Sancti Michaelis (esterno)

   In età post-tridentina, presso il piccolo santuario locale si insediarono stabilmente alcuni eremiti. A conferma di tale ipotesi vi è il fatto che davanti alla cavità, all’estremità di una spaziosa terrazza, sono stati realizzati alcuni ambienti disposti su due piani, destinati ad abitazione, deposito e forno per la cottura del pane.

   Il romitorio fino agli inizi del 1900 è rientrato nella parrocchia di Borgo, ora è assegnato a quella di Preturo ed è meta di pellegrinaggio, il Lunedì in Albis, l’8 maggio e il 29 settembre: secondo la tradizione popolare chi attraversa la grotta per tre volte è preservato dalla malattie viscerali e  le puerpere avranno un buon parto.

Teresa Colamarco

Bibliografia: T. Colamarco, Il Complesso Monumentale del Corpo di Cristo di Borgo nella Storia (secc. xii-xviii), Bracigliano (SA), pp. 81-85.